La guerra alla Cannabis light

Cannabis light: la guerra di Facebook e Pay Pal

Con l'entrata in vigore della legge n° 242 del dicembre 2016, il mercato della cannabis light ha conosciuto una crescita senza sosta, favorendo la proliferazione di centinaia di negozi fisici e online, che vendono la cosiddetta cannabis legale e tutti i prodotti ad essa correlati.

 

 

Eppure, nonostante la nuova legislazione in materia e le numerose sentenze di Cassazione che ribadiscono la liceità di questo commercio, gli imprenditori continuano a sperimentare difficoltà insormontabili, sconosciute ai loro colleghi di altri comparti merceologici.

 

 

Infatti, nonostante operino nel rispetto delle regole, gli operatori del settore non possono pubblicizzare i loro prodotti sul web, né possono avvalersi delle più comuni modalità di pagamento, quali Pay Pal, Visa e Mastercard. Com'è possibile?

 

 

Caos mediatico e disinformazione: i risultati di una legge ambigua

 

 

Volendo cercare informazioni in rete, ci si trova subito nel caos più totale: decine e decine di siti pretendono di fare informazione confondendo la vicenda delle farmacie sanzionate per aver fatto pubblicità ai loro prodotti contenenti cannabis, con i divieti imposti dai maggiori social network alle società che commerciano prodotti contenenti canapa.

 

 

Dal punto di vista legislativo, le norme sono chiarissime e vietano espressamente la pubblicità di sostanze che siano contenute nel Testo Unico sugli stupefacenti. E qui sorge la prima incongruenza.

 

 

Vero, le farmacie colpite da multe esorbitanti facevano pubblicità alla cannabis terapeutica, quindi quella con THC superiore allo 0.6% e acquistabile solo con ricetta medica: ma cosa c'entra la cannabis terapeutica con quella light, legalizzata proprio in virtù di un THC inferiore ai limiti di legge? I farmacisti obiettano che la cannabis terapeutica è un prodotto come un altro e, esattamente come i farmaci contenenti oppiacei, ha il diritto di essere pubblicizzata e di non venire penalizzata dai motori di ricerca.

 

 

La cannabis light, però non è nemmeno menzionata nel Testo Unico ed è ormai legale da un paio di anni. Quindi, perché questo ostracismo da parte di Adwords, Facebook e i principali social network?

La cannabis light non piace agli algoritmi

 

 

Uno dei motivi per cui gli imprenditori del comparto della canapa non possono pubblicizzare i loro prodotti, risiede nella difficoltà nel controllare ciascuna inserzione, post o pubblicità caricata in rete. In Italia, a differenza di altri paesi, la marijuana non è del tutto legale, lo è solo la cannabis light, quella con basso contenuto percentuale di THC. Le verifiche sulle pubblicazioni sono spesso automatiche, pertanto, al di là di ciò che si sta vendendo, l'algoritmo preposto al controllo procederebbe immediatamente alla rimozione di testi contenenti parole come “canapa”, “cannabis” e “marijuana”. Il fatto rimane però quantomeno curioso, visto che questi robot-censori depennano pure contenuti dove compare la parola “CBD”, che certo stupefacente non è.

 

 

Ma questo aspetto riguarda problematiche puramente tecniche, che, volendo, potrebbero essere risolte con modifiche ad hoc sugli algoritmi. La vera ragione per cui al comparto della cannabis light è vietata la pubblicità online deve essere ricercato nella schizofrenia di una legge tutt'altro che chiara e che, a tutt'oggi, costringe numerosi imprenditori a ricorrere ai tribunali per veder riconosciute le loro ragioni. E questo nonostante le ormai numerose sentenze di Cassazione che, nei fatti, riconoscono la liceità del commercio di questi prodotti.

Social network: sinceri democratici o censori del nuovo millennio?

 

 

La legge parla chiaro: in Italia il commercio dei prodotti a base di cannabis light è perfettamente legale. Lo dice la legislazione, lo dicono le sentenze di Cassazione e dovrebbe dirlo anche il buon senso. Eppure alcune forze politiche e numerose associazioni, che si battono contro questo tipo di legalizzazione, sono ancora molto forti e, probabilmente, sono l'origine di una legge che non riesce a dare certezze agli operatori di un settore che ha investito capitali in questo prodotto, ma che non ha le garanzie necessarie per poterlo pubblicizzare e vendere.

 

 

I social network, preferendo non rischiare, decidono di vietare del tutto le inserzioni relative alla cannabis light, imponendo un ostacolo insormontabile a un'attività perfettamente legale.

 

 

Ma sapete qual è il fatto davvero curioso? Che Instagram, Facebook e Google non solo non risiedono in Italia, ma hanno la sede in uno dei pochi paesi al mondo in cui la legislazione relativa all'uso della cannabis è fra le più permissive! Quindi, se in Italia non vi è alcuna legge che vieti questo tipo di pubblicità e se loro risiedono in un paese che ha addirittura visto la vittoria di un referendum che chiedeva di esprimersi sulla liceità della cannabis a uso ricreativo, che paura hanno?

 

 

Anche perché, negli ultimi tempi, un colosso come Facebook non si è limitato alla sola rimozione di pubblicità e vetrine per negozi online, ma ha addirittura cancellato pagine storiche, legate a testate giornalistiche, il cui unico reato era quello di avere pubblicato foto e articoli che parlavano di cannabis: una stretta censoria insopportabile, che non vede precedenti degni di nota nel più recente passato.

Un intero settore nella black list delle banche

 

 

In questa guerra al comparto della cannabis light, i colossi dei social media sono, però, in buona compagnia: al loro fianco sono scesi in campo anche importanti istituti bancari e i principali circuiti di pagamento online che, dal giorno alla notte, hanno interrotto tutte le transazioni commerciali sui siti preposti alla vendita di questo prodotto.

 

 

Ebbene sì, proprio dal giorno alla notte, dopo che gli imprenditori del settore avevano già sottoscritto i contratti di attivazione e rese operative le modalità di pagamento sui loro siti.

 

 

Visa, Mastercard e Pay Pal hanno inserito in una black list tutti i produttori e rivenditori di prodotti a base di cannabis, creando ingenti danni ad un intero settore, che deve fare a meno dei principali metodi di pagamento adottati online.

 

 

Una presa di posizione che presenta tratti di incostituzionalità, dal momento che, nei fatti, ostacola un'iniziativa economica privata che non viola alcuna norma e che potrebbe vedere, in un prossimo futuro, azioni collettive volte a chiedere un cospicuo risarcimento danni a questi giganti del settore bancario.

 

 

 

 

Il momento di fare chiarezza è davvero arrivato: la politica dovrebbe sganciarsi dalle posizioni più moraliste e repressive, promulgando leggi chiare, trasparenti e coerenti, che permettano il decollo di un settore che in pochi anni ha visto una crescita esponenziale, con ricadute eccezionali sull'occupazione e l'indotto.

 

 

Per far ciò ci vuole onestà intellettuale e lungimiranza: sì, perché questa perdurante ipocrisia nei confronti di una pianta è divenuta ormai moralmente inaccettabile ed economicamente svantaggiosa. Ci sarà qualcuno in grado di capirlo, prima che un intero settore venga cancellato da banche e social network?

 

 

 

 

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